domenica 30 marzo 2014

Il principe e il popolo: Micco a Muro Leccese


 Squadra: "Micco"

Cercatori: Monica, Cesà, Serena e Graziano.

Narratore: Danilo


A Muro tenevate il porco in casa: noi a Maglie eravamo più civili!” sfotte Filomena. “Ma se Maglie ha duecento anni. Muro ne ha duemila, di anni! Chi è più civile?” sbotta Paolo. Le dita a V, secoli contro millenni, lui mette a tacere lei: l’intemerata è bonaria ma, per qualche secondo, negli occhi miti di questo ottantenne dai capelli bianchi è lampeggiata la fiamma che probabilmente ardeva nello sguardo del suo omonimo antenato, “sindaco” nel 1.200, quando la vicina Maglie era un casale agricolo e Muro Leccese era già contornata di mura megalitiche risalenti a quindici secoli prima. 
In quegli anni, probabilmente, nacque la ‘nciurita, ovvero il soprannome, dei muresi: “porci”, epiteto poco gentile la cui origine fa riscaldare la coppia (se volete assistere al botta e risposta integrale tra il murese Paolo e la magliese Filomena, punteggiato dalle risate di Graziano, potete farlo qui sotto). 


I Castrì sono la famiglia più antica che vive ancora a Muro Leccese – ci spiega lui tutto orgoglioso, seduto nella sua cucina – e abitiamo in questa corte da almeno nove secoli”. Il nostro viaggio in questo piccolo centro dell’entroterra d’Otranto è breve, ma denso e fortunato: la Storia concentrata nel palazzo Protonobilissimo, che abbiamo visitato due ore prima, e le storie che via via stiamo inanellando nel nostro percorso. 

Compresa quella del signor Paolo e di sua moglie, Filomena: neanche a farlo apposta una coppia, nel paese in cui tutto sembra doppio. 

Due i borghi antichi, uno medioevale alle spalle del Castello e uno seicentesco nella strada che gli sta di fronte. 

Due gli antichi frantoi, uno per il principe e uno per il popolo. 

Due anche le chiese che – caso più unico che raro – si fronteggiano al centro del paese: su un lato una chiesa del principe, edificata dai feudatari Protonobilissimo, e su un altro lato una chiesa del popolo, costruita dal potente ordine dei Francescani. 

Una e anzi unica, invece, è la spettacolare piazza che rappresenta il cuore della città e che unifica i due volti di Muro: la piazza del Popolo, sulla quale si affaccia il palazzo del Principe. 
È proprio il palazzo del Principe la nostra prima tappa; siamo “doppi” anche noi: Micco e Macco, le due squadre che questa domenica si sfidano a Muro. L’obiettivo è sempre lo stesso: trovare gli scorci più suggestivi e i personaggi più caratteristici del centro che abbiamo scelto. 

Ma prima di dedicarci alla gara, decidiamo di seguire la Pro Loco nel tour che propone ai visitatori: più tardi le due squadre si separeranno a caccia di punti, ma ora effettuano insieme il volenteroso presidente Graziano Di Bari, che ci guiderà nel museo ospitato all'interno del Palazzo del Principe, nel frantoio semi-ipogeo dei Protonobilissimo e anche nel nucleo medioevale posto alle spalle del castello: quest'ultimo si chiama Borgo Terra, come molti analoghi centri antichi del Salento. 

C’è un’espressione molto usata e un po' banale, per descrivere certi luoghi: “il tempo si è fermato”. Qui, in realtà, il tempo è fermo e insieme mobile: un sapiente lavoro di restauro (e di illustrazione delle emergenze più interessanti) ha restituito le antiche case al loro umile splendore. 

Il nucleo antico è ricco di angoli di grande suggestione, ma la cosa che ci colpisce è il silenzio che regna incontrastato: questo borgo è, come ci accorgiamo ben presto, sostanzialmente spopolato.

Buona parte delle case, infatti, sono vuote e lasciate a se stesse, mentre quelle abitate sono state oggetto di discutibili interventi, al limite dello sconcio: è il caso dell’antica taverna di Borgo Terra, dove una doppia inferriata in acciaio grigio è stata piantata nella pietra farinosa, per tenere curiosi e visitatori a debita distanza dall’antico portale, sul quale si legge l’iscrizione latina “Ingens animus sub lare parvo”, ovvero “Sotto un piccolo focolare vi è un animo grande”: una massima che in effetti avremo modo di verificare, durante la nostra gara. 

A proposito di gara, a rompere il ghiaccio è Serena, vagando per le antiche strade basolate. Guidati dal volenteroso presidente della Pro Loco che ci conduce nella visita al castello e al Borgo Terra, varchiamo una suggestiva porta che ci apre un cortiletto. 

Lì in alto ci sono dei simboli, che potrebbero essere collegati alla possibile presenza di ebrei a Muro”, ci spiega la nostra guida. 

Attirato dal baccano, il vecchietto che abita nel presunto ghetto ebraico esce fuori di casa. E Serena lo aggancia subito, (guadagnando 1 punto), chiedendogli spiegazioni sui simboli. “E che ne so io, figlia mia? – risponde lui, con la quiete di chi ne ha viste passare molte – lì li ho trovati e lì li ho lasciati”.

Sarà l’unico incontro che faremo nel borgo medioevale: ben più vivo e popolato ci risulterà, invece, il borgo seicentesco antistante al Castello, dove tra l’altro incontreremo il nostro “protosindaco” di Muro, Paolo Castrì, inoltrandoci sulla via che lambisce la torre dell’orologio. 
Apprenderemo dopo che si tratta di una strada antica e ricca di storia; ma ci accorgiamo subito della bellezza di uno dei palazzi che si affacciano su di essa.  

Ci inoltriamo nell’androne, in direzione del salice piangente e della palma che si staglia nera contro il cielo che trascolora verso il tramonto.

L’atmosfera è decadente, ma i dettagli sono curatissimi: dai leoni che campeggiano sul grande portone che ci siamo lasciati alle spalle, alle porte incise che rappresentano paesaggi orientali, perfino nell’alternanza tra fiori rossi e blu del giardino.
 
Suoniamo alla porta che vediamo illuminata, ma stavolta nessuno ci risponde: Monica, più tardi, interpellerà due vicini di casa (guadagnando 2 punti), che ci spiegheranno che l’edificio è abitato solo in parte. 

Usciamo dall’androne e Serena (che conquista così 1 punto) abborda un maturo signore con i capelli bianchi e la camicia a scacchi: “Che palazzo è questo, ci scusi?”. 
Palazzo Maggiulli Alfieri, da non confondere con il palazzo Maggiulli, un po’ più giù” risponde lui pronto, nel quale avrete riconosciuto il nostro Paolo Castrì: il discendente del protosindaco di Muro invita Serena, Graziano e Danilo ad entrare nella sua bottega di artigiano del legno (facendo così ottenere 5 punti alla squadra), dove si trova anche un ragazzo, Pierluigi: è uno degli ultimi rampolli della sterminata e antica famiglia Castrì. 

Parliamo anche con lui, (tra l'altro guadagnandoci 1 punto): “con Uccio siamo terzi cugini, ma abitiamo nella stessa corte” ci spiega; un accenno che, ovviamente, ci rende smaniosi di vedere la corte sulla quale si affacciano le case dei Castrì. 
Così Serena indossa la sua migliore espressione di brava figliola e esala un esitante: “potrei fare una domanda davvero sfacciata? Potrei chiedervi di vedere la corte e, magari, di offrirci un caffè?”. Pierluigi, dubbioso, guarda Paolo ma la faccia del vecchio si apre in un sorriso: “e ci mancherebbe altro, signorina!”. 

Tra poco vedremo i Castrì mostrarci la loro corte e Paolo aprirci la sua casa. Nel frattempo a chi ci legge basti sapere che quanto abbiamo visto nel museo ospitato dal palazzo del Principe dà ragione al discendente dell’antico sindaco: Muro ha una storia millenaria, testimoniata non solo dai resti delle mura messapiche, alle quali probabilmente il paese deve il suo nome, ma anche ai ritrovamenti archeologici, come lo scheletro intero e perfettamente conservato emerso in località Cunella. 

Era un uomo alto 1 metro e 70 – ci spiega il presidente della Pro Loco – è vissuto nel III secolo avanti Cristo e morto intorno ai 50 anni”. 

La spiegazione, pur interessante, si dilunga e si dettaglia; non aiuta a ravvivarla la visione dei frammenti di vasi a figure nere e di crateri ellenici (che la nostra guida chiama con una gaffe inopinata “cateteri”, suscitando gli sghignazzi di Danilo e Monica, in pieno clima goliardico da gita scolastica).

Al posto d’onore della sala archeologica, accanto allo scheletro dell’uomo di Muro, campeggia il frammento di un capitello, le cui decorazioni sono identiche a quelle che caratterizzarono gli edifici di re Filippo il Grande, padre di Alessandro Magno. 

La nostra guida si perde nella descrizione dei probabili commerci tra le due sponde dell’Adriatico e del legame che univa Muro alla Macedonia. 

Le facce di Federica, Serena e Andrea davanti al capitello di scuola macedone dicono chiaramente che la visita al palazzo del Principe è un momento irrinunciabile nella nostra visita a Muro, ma anche che è bene contingentare i tempi per non perdere le mille storie che questo paese ha da offrire.
C’è la storia grande e plurale, come quella che ci è stata appena illustrata. E poi ci sono le storie piccole e singolari, che però raccontano bene cos’era questa terra non nell’anno mille ma appena mezzo secolo fa. 
Come quella della vispa ottantenne che ci racconta di “quando a 12 anni andai a lavorare come colona nella campagna del duca Basurto”. 

La agganciamo proprio nella piazza del Popolo: è Cesà, stavolta, a riuscire nell’approccio (guadagnando 1 punto) e insieme a Monica si mette a scavare nella memoria della donna, palesemente divertita davanti alle nostre domande. “A scuola ci siamo andati poco, ma la quinta elementare ce l’ho” premette lei, come per scusarsi del suo dialetto verace, che ai nostri occhi è invece preziosissimo: è un pezzo di civiltà contadina, quello che questa donna ci racconta nella piazza di Muro e che, per inciso, vale alla nostra squadra 15 punti
È il corrispettivo di un cuntu, un racconto in dialetto proveniente da un mondo antico e che non c’è più: lu fenu e lu posciu, memoria della sua infanzia passata a lavorare nei campi, dai 12 ai 23 anni, “fino a quando non mi sono sposata”, ci spiega. Per sentirlo per intero basta cliccare qui.

E poi quando ti sei sposata, ti ha mantenuto tuo marito?” chiede Monica, che non a caso è l’imprenditrice del gruppo. “Oh, è logico! – sbotta la donna – ho fatto nove figli, tutti maschi!” rimarca lei, come a dire che il suo dovere l’aveva fatto, eccome. 
 
Nel frattempo Serena è tornata dalla chiesa matrice, dove ha fotografato i transetti interni e i colonnati esterni, entrambi lavorati e scolpiti secondo i dettami di quel barocco che c’è chi definisce “minore”. 

Opere, tutte, di artigiani locali: erano talmente bravi e rinomati, gli scalpellini di Muro, che a centinaia furono chiamati in Veneto a lavorare all’edificazione di una delle sedi della prestigiosa università di Padova. 
Questo, per lo meno, è quanto ci ha raccontato la nostra guida durante la visita guidata al palazzo Protonobilissimo, che avevamo lasciato in sospeso nella sala archeologica. 

Da lì, ormai stremati, avevamo chiesto di salire direttamente al piano superiore, ad ammirare le stanze nobili. 
Il presidente della Pro Loco brontola un po’ per l’impazienza che spezza il filo del suo racconto, ma alla fine cede alle insistenze e Danilo, Serena, Graziano e Monica, insieme a tutti gli altri componenti della squadra concorrente, salgono trionfanti le scale che li portano al piano nobile del palazzo Protonobilissimo. 

Il nome viene dalla famiglia che lo costruì alla metà del 1.400, a partire dal capostipite, Florimonte: significa “primo fra i nobili” e ha come stemma il drago alato che campeggia sul portale d’ingresso e su diversi pezzi di vasellame.

Tanta attesa non verrà delusa: il castello si conferma principesco e, probabilmente, il più curato e meglio tenuto del Salento. 
 
Fughe di saloni con decori leggeri ed eleganti. Pavimenti a scacchi di marmo lucido. Lampadari in vetro e ferro battuto. 

Soprattutto, tende ricamate ad ogni finestra, che Serena si ferma a contemplare, forse vagheggiando un futuro da gran dama. 

Da una parte vediamo la romantica camera della principessa, dall’altra parte la funzionale camera del Principe, affacciata sulla piazza del Popolo. 

Vista dal balcone la chiesa dell’Immacolata si staglia scura davanti al sole che comincia a calare. 

Più tardi, osserveremo da vicino il suo gioiello più prezioso, la nicchia rococò riccamente lavorata al centro della facciata, nella quale trova posto la statua della Madonna a cui è dedicata.

Sarà poco dignitoso, stretti tra tanta sacralità e cotanta nobiltà, ma non resistiamo. Così Cesà scatta una foto collettiva: un selfie sul balcone del Principe è d’obbligo, amalgamati senza distinzioni di squadre, di Micco o di Macco. 
Rassicuratevi: uno spirito così olimpico durerà poco. Il nostro racconto può ritornare alla corte dei Castrì: la corte è una struttura abitativa tipica della terra d’Otranto che consiste in un cortile aperto, comunicante con la strada, sul quale si affacciano diverse case. 

Molte incisive ristrutturazioni hanno cambiato l’aspetto di questa corte, ma l’intero lato centrale è ancora com’era nel 1631, anno che si legge in numeri romani sul portale. 

Il resto dell’iscrizione è resa incomprensibile dal passare del tempo e della calce bianca. “Mi hanno detto che significa «bere poco fa male, bere vino fa bene», ma forse mi stavano prendendo in giro” ci dice ridendo Paolo, aprendoci la porta di casa (e facendoci guadagnare altri 5 punti): “Accomodatevi!”. Ci tocca 1 altro punto quando salutiamo Filomena, che regna sulla cucina e sulla casa: “Uuh, le foto state facendoo? – esclama, allungando le u e le o nell’ululato dolce che caratterizza la parlata salentina – Proprio oggi che non ho i capelli fatti e la casa è in disordine?”. 

Ci guardiamo intorno, interdetti: non solo la chioma della signora non lascia nulla a desiderare, ma soprattutto la sua casa brilla come uno specchio. “Venite, venite nel salotto buono” ci dice Paolo e, quando la luce si accende, rimaniamo basiti: la casetta che ci ha accolto esibisce un parquet posato a incastro in cui le diverse tonalità del legno compongono delle rose dei venti, mentre il soffitto, da cui pende un lampadario di ferro battuto, è a cassettoni stuccati e decorati. 

L’ho fatto tutto io, la sera, quando tornavo dal lavoro – gongola Paolo – avevo una piccola ditta di ristrutturazioni edili, ma la mia passione è sempre stata questa”. Serena si mette letteralmente in ginocchio: “per fotografare meglio” spiega.

Un tesoro nascosto, frutto dell’arte e della cura del suo proprietario; rientrando in cucina, ci viene spontaneo raccontare a Paolo e a sua moglie quello che abbiamo visto un paio d’ore prima nel castello del Principe: “c’era un tesoro nel vero senso della parola – spiega Danilo – decine e decine di monete d’argento, che una signora aveva ritrovato in casa sua”. “Quindi aveva fatto un’acchiatura”, dice Filomena, facendo riferimento all’antica leggenda del ritrovamento di un tesoro; leggende diffuse in tutta la provincia che, evidentemente, hanno radici profonde nella storia. 

Allo stesso modo, nel dialetto salentino più stretto i denari vengono chiamati turnisi: e infatti “denari tornesi”, risalenti al 1.300, sono queste monete conservate gelosamente nel palazzo.
Ma quindi volevate il caffè, no?” ci chiedono Paolo e Filomena; la cortesia di questa coppia è davvero principesca, la risposta affermativa è d’obbligo, l’autoscatto è di rito: non solo il caffè è buonissimo, ma altri 5 punti sono in cassa

E magari possono aumentare, se Filomena ci enunciasse una ricetta tradizionale: ben 10 altri punti nel paniere. “Ma io non sono una grande cuoca” si schermisce lei. Basta però ricordarle che pochi giorni prima c’è stata la festa di San Giuseppe per trovare il piatto tradizionale della ricorrenza: la “massa e ciciri”, la cui ricetta (anche con un accenno alla variante con i mugnuli) potete trovare cliccando qui.

Ma tra frizzuli e lazzi, parquet e caffè, il tempo in casa Castrì è volato: e noi dobbiamo andare avanti, nella gara e nel nostro tour. 

Con Paolo e Filomena sono saluti, baci e ringraziamenti: usciamo da quel “lare parvo” dove abbiamo trovato più di un “ingens animus” e ci avviamo al termine della nostra visita, guidati da Pierluigi. 
Mentre Monica, ormai posseduta dallo spirito del gioco, ferma una gentile signora alla quale chiedono la ricetta della crostata con la marmellata di arance (ottenendo, però, molti sorrisi ma 1 solo punto per la chiacchierata), Graziano, Danilo e Serena proseguono sulla strada con Pierluigi.
Scopriamo che è un architetto, laureato a Pescara, e che collaborato spesso con la Sovrintendenza ai Beni Culturali: è lui a spiegarci l’importanza della “Via Salentina” sulla quale si affaccia la corte dei Castrì e molti dei più importanti palazzi di Muro. 

È antichissima, perché seguiva un corso d’acqua sotterranea – ci spiega – infatti molte delle case che vi si affacciano sono munite di pozzo per attingere alla falda, che qui è vicinissima al livello del suolo”. 

La cosa non ci stupisce: pochi metri più a monte, abbiamo visto la falda affiorare e invadere i sotterranei del Palazzo del Principe, proprio accanto alle carceri. 

Le carceri, proprio così: il nome è plurale, ma in realtà si tratta un solo locale piccolo e angusto, tanto stretto che occorre accedervi piegandosi a metà. 

Siamo in dodici, uno addossato all’altro, e ci entriamo a stento. 

Qui il principe imprigionava chi pensava lo meritase: ribelli o criminali che fossero. 

E i prigionieri lo hanno ripagato con graffiti e incisioni fantastiche, che raffigurano uomini che portano una croce, cavalli dal muso lunghissimo, simboli religiosi e serpenti zebrati. 

Nulla di artisticamente rilevante, beninteso, ma è fortissima la potenza suggestiva di queste immagini: e ci immaginiamo quei poveretti, imprigionati in una minuscola cella cinque secoli fa, che passavano il tempo a intagliare la morbida roccia del Principe.
 
Ma il tempo per le immaginazioni è ormai agli sgoccioli: proseguiamo il nostro itinerario per la Via Salentina, tra palazzi dai balconi barocchi e grappoli di pomodori appesi alle pareti, per giungere al parco di Muro. 

Qui incontriamo il più docile gatto di tutto il paese, che non solo non fa una piega quando Serena lo accarezza ma anzi si lascia spupazzare senza battere ciglio, con aria consapevole della propria morbidezza. 
 
Il parco, bellissimo e popolato di ragazzi, nella luce quasi scomparsa del sole ormai tramontato, custodisce un altro degli umili tesori di questo multiforme paese: un frantoio ipogeo, purtroppo chiuso e in stato di abbandono, che apprendiamo essere stato quello più usato dalle famiglie di contadini che coltivavano le fertili terre circostanti. 

Grande è la differenza con l’altro frantoio che abbiamo visto alla fine della nostra visita guidata ai possedimenti dei Protonobilissimo: il frantoio semi-ipogeo del Principe, vera cattedrale della filiera olearia di questo spicchio di territorio. 

Tenuto con grande cura e illustrato con grande amore dalla nostra guida, Graziano Di Bari, è un vero e proprio documentario di pietra sulla principale forma di economia che a lungo ha caratterizzato il Salento, quella agricola, che in qualche modo sembra ritornare oggi alla ribalta produttiva.
Sarà proprio all’interno del frantoio del Principe che conosceremo il più caratteristico personaggio del nostro tour, che è anche l’ultima persona che regaliamo al nostro racconto: mesciu Scisci, ovvero Luigi Carluccio, noto falegname specializzato nelle trozzule

Trozzule ne volete, signori miei?” sarà la frase che l'artigiano ultranovantenne lancerà sulle scale del frantoio del Principe; Danilo non se lo fa ripetere due volte: “Come no! Ce le fai vedere?” gli dice (guadagnando 1 punto). 

La bottega di mesciu Scisci è proprio lì, a pochi passi dal frantoio; bottega d’altri tempi, dotata di scalini ripidissimi, dai quali l’ultra90enne si cala nella cantina ricolma di trucioli e di pezzi di mobilio intagliato sui quali sta lavorando con insospettabile agilità, ben superiore a quella di Cesà e Danilo che comunque lo seguono nella bottega (guadagnando 5 punti). 

Questo artigiano dagli occhi antichi sembra aver fatto qualche patto soprannaturale di lunga vita, forse contraccambiandolo con una congrua partita di trozzule: si tratta di aste, dotate di una ruota dentata intorno alla quale si fa girare una sorta di bandiera di legno, il cui rumore caratteristico risuona durante i riti della settimana di Pasqua. 

 
Con queste si andava nelle chiese, specie il sabato santo” ci spiega lo stesso mesciu Scisci illustrando il senso della tradizione religiosa e il funzionamento della trozzula (potete ascoltarlo nel video qui sopra).

Per Graziano, a dir la verità, l’oggetto di legno diventa subito il giocattolo per fare un po’ di casino nella bottega e il souvenir del nostro tour di Muro, il cui racconto è ormai giunto al termine. A degna conclusione, Serena scatta un selfie che ritrae lei sulla porta e noi altri calati nella tana del falegname nonagenario, sorridenti per quello che Muro ci ha regalato: la millenaria Storia delle sue mura e le singolari storie di coloro che le abitano.

Reduce dal primo posto nella precedente tappa di Soleto, la squadra "Micco" totalizza 54 punti nella tappa di Muro Leccese, piazzandosi davanti alla squadra avversaria, "Macco" (il cui tour potete leggere qui). E si prepara alla prossima sfida del "Salento Express". E, ovviamente, #chicceccè!

Nessun commento:

Posta un commento